storia

SYD BARRETT: LA STORIA DIETRO LA CANZONE “BOB DYLAN BLUES”

Con l’uscita del videoclip di “Bob Dylan Blues“, realizzata da “Artist on the Border” in collaborazione con l’artista danese Jørgen Folmer Neergard Larsen, cogliamo l’occasione per addentrarci dentro la storia di questa canzone che, a mio avviso, è una pietra miliare della discografia di Syd Barrett ed era rimasta inspiegabilmente inedita fino al 2001. Dalle parole di Libby Gausden e Jenny Spires, si può immaginare quanto Dylan era importante e fonte di ispirazione per tutti gli artisti.


Bob Dylan Blues” fu scritta nel 1965 e successivamente diventò un demo per l’inclusione in “Barrett“, venerdì 27 febbraio 1970 presso lo studio 2 degli studi EMI di Abbey Road. Questa session per il secondo LP di Syd Barrett fu curata da Peter Bown, Alan Parsons e John Leckie, con David Gilmour che intervenne come produttore. La sessione consisteva per lo più nel demo di Syd di nuovo (vecchio?) materiale, tra cui Wolfpack, Living Alone, Gigolo Aunt e “Dylan Blues”. I dettagli sul numero di take, sulle false partenze ecc. non sono annotati sulla cartella di registrazione, ma una bobina di nastro da ¼” è stata usata per farne una copia su nastro da 7″ che è stata “portata via da David Gilmour“. Sfortunatamente egli (Gilmour) tornò e rimosse anche i master. Nel 2000-2001 però, David Gilmour ha masterizzato e pubblicato ufficialmente il brano nella compilation del 2001 “Wouldn’t you Miss Me?” e successivamente nella compilation del 2010 “An introduction to Syd Barrett“.


La canzone Bob Dylan Blues è uno dei primi brani di Syd Barrett, scritto all’inizio del 1965 ma registrato solo durante le sessioni del febbraio 1970 per l’album “Barrett”. Si pensava che fosse andata perduta fino a quando, dopo 30 anni, è stata ritrovata da David Gilmour in una raccolta di nastri e pubblicata nel 2001 su “The Best of Syd Barrett: Wouldn’t You Miss Me? “. La canzone è simile a “Effervescing Elephant” in quanto riflette la creatività di un giovane Syd Barrett con il suo umorismo e i suoi giochi di parole.

L’amica Libby Gausden ricorda che, come regalo di compleanno, fu portata a vedere Bob Dylan con Syd nel maggio 1964, a Londra: “Arrivammo al South Bank e lui disse: Guardate, siamo io e te da ogni città’. Ogni città ha mandato un Syd Barrett, la prima volta che ho visto persone come lui“. Tre anni dopo, questo è il luogo in cui Syd avrebbe trionfato in “Games for May” – Non sapeva che…


“The Freewheelin’ Bob Dylan” fu pubblicato negli Stati Uniti nel maggio 1963, ma nel Regno Unito solo in novembre. Ben presto Freewheelin’ si posizionò al numero uno delle classifiche e nel 1964 seguì “The Times They Are A’ Changin” e, nel novembre dello stesso anno, “Another Side of Bob Dylan”. Quest’ultimo album contiene la canzone “I Shall Be Free #10” e il testo: “Sono un poeta; lo so, spero di non rovinare tutto“. Syd, come sempre abile artista del collage, ha raccolto pezzi da tutti questi album per scrivere una parodia molto personale di Bob Dylan nel suo stile.

La musica è nello stile del valzer “Chimes of Freedom”, con accordi simili. Il titolo della canzone è simile a quello usato in “Freewheelin”, con il nome dello stesso Dylan in non uno ma ben due titoli di canzoni dell’album – un risultato notevole per un nuovo artista: “Bob Dylan’s Blues” e “Bob Dylan’s Dream”. Quando Syd canta “the wind you can blow it” è un riferimento comune a diverse canzoni di Dylan, così come le scarpe e il cappello. La rima tra “dreams” e “seems” è presente in “Talking World War III Blues” e “war in the cold” che provengono da “Masters Of War”.



Questa è una foto dell’allora amica Jenny Spires, scattata dallo stesso Syd. Jenny commenta: “Questa foto me l’ha scattata Syd all’inizio del 67. La giacca era bella… i pantaloni di raso da Granny’s, dove altrimenti? a quel tempo.. Ma sicuramente il taglio alla Bob Dylan..“.
La lettera, da Syd a Jenny, documenta le origini di Bob Dylan Blues: “Ho scritto una canzone su Bob Dylan. Sì! Sì! Anima, Dio, ecc. Inizia con Ho il blues di Bob Dylan e le scarpe di Bob Dylan e i miei capelli e i miei vestiti in disordine ma sai che non me ne può fregare di meno’. In effetti un po’ satirico e umoristico. Ho! Ha! Hee! Tee! per Syd“.

Jenny ci racconta questa storia affascinante sull’antefatto e sulla lettera:

Nel 1965 Syd o ‘Rog’, come si firmava, mi scriveva due o tre volte alla settimana. Frequentava la scuola d’arte di Camberwell e ora che si era stabilito a Stanhope Gardens, voleva portare lì alcuni dei suoi dipinti. Questa lettera arrivò a fine gennaio/inizio febbraio 1965. Prima di conoscere Syd, ascoltavo Dylan e una serie di generi folk, blues e rock che avevamo scoperto essere di grande interesse per entrambi. Così, quando mi inviò questo verso, all’inizio non mi sembrò così insolito. In genere, mi ha fatto ridere. Come lui, è pieno di umorismo, “un po’ satirico”, scrive, “Silenzio mentre faccio come il gatto”, “il mio stomaco e il mio portafoglio sono grassi”, “comprate tutti i miei dischi e un cappello”, esilarante. È anche un omaggio a “Dylan”, con cui Syd si identifica: “Perché sono il signor Dylan il re”. È geniale. Syd, con il suo occhio da pittore, riesce sempre a trascendere. Nei termini più semplici apprendiamo che Dylan the King canta “di Dio e della mia ragazza”, “di ciò che è giusto e di ciò che è sbagliato”, di “sogni” e di ciò che “sembra”. E potrebbe “profetizzare ogni genere di cose“.

Per me, in quel momento, la canzone parlava di quel concetto di “Freewheelin”, spensieratezza, in cui ci siamo immersi. È un movimento verso un mondo più libero e migliore, lontano da quello che vediamo in “Song To Woody”, “A Man of Constant Sorrow”, “Hard Rains” e “Don’t Think Twice”. Dylan ha avuto un’enorme influenza su tutti noi all’epoca. Le sue canzoni erano la nostra protesta. Così, quel fine settimana, mentre stavamo guidando verso Londra, percorrendo la A1, per quanto si possa fare in una Austin A30 blu con l’indicatore di direzione sul cruscotto, imparai il resto della canzone. Syd aveva diverse canzoncine che cantavamo… ed ero abituato a sentirlo suonare la chitarra acustica, ma questa canzone, suonata con tutta la sua risonanza dylaniana, è bellissima.

All’epoca, vedere Syd a tutto gas in una band non mi sorprese affatto. Era bravo. Il vecchio gruppo blues T Set/Floyd che suonava “King Bee” e le sue canzoni “Lucy Leave” e “Double O’ Bo” era entusiasmante. Lo sviluppo di Syd come autore di canzoni prese piede rapidamente. Nel giro di un anno la band si stava spostando verso quella che noi chiamavamo improvvisazione “libera”, e con il flusso libero dei testi di Syd, in canzoni come “Astronomy Domine” e “Chapter 24”, divenne un’influenza considerevole.


Bob Dylan ha avuto un’influenza fenomenale su molte persone. Nel caso dei Pink Floyd, anche se non si riflette ovviamente nella loro musica, Dylan era un eroe per tutti e tre i loro principali leader creativi. Syd ha scritto una canzone in suo onore. Roger Waters fa spesso riferimento a Dylan come fonte di ispirazione e, negli ultimi tempi, è diventato qualcosa di simile al cantante di protesta che Dylan era diventato. David Gilmour ricevette l’album di esordio di Dylan dai suoi genitori negli Stati Uniti molto prima che venisse pubblicato nel Regno Unito.

Due anni dopo la canzone di Syd, Bob Dylan era cresciuto di importanza e, dopo il suo incidente in moto e la sua scomparsa a metà del 1966, aveva raggiunto livelli quasi mitici, influenzando molte parti della cultura. Roger Waters, in una delle sue canzoni su “The Wall”, canta della “permanente obbligatoria alla Hendrix“; qualcosa che Jimi Hendrix aveva in effetti adottato da Bob Dylan nella sua ammirazione per lui. Quindi, in realtà, si trattava di una “permanente alla Dylan“, e per alcuni più che per altri.

Jenny ricorda: “Durante le vacanze di Natale del 1966, Syd mi suonò una versione acustica della sua canzone Arnold Layne, in fondo una canzone di protesta. I Floyd avrebbero dovuto registrarla e pubblicarla come singolo nel nuovo anno. Nel frattempo, Peter Whitehead mi aveva mostrato le riprese per il suo film, “Tonite Let’ s all Make Love in London”, ma era in ansia per la colonna sonora. Gli proposi di usare “Interstellar Overdrive” dei Floyd e fortunatamente, dopo averli ascoltati, accettò. Nel giro di una settimana Peter prenotò i Sound Techniques e andammo a filmarli poco prima delle sessioni di Arnold Layne. Prima del mio ritorno a Londra dopo le vacanze, mi sono fatta fare le ‘bolle’ ai capelli. Quando Syd li vide, gli brillarono letteralmente gli occhi. C’erano diverse persone sulla scena che avevano questa meravigliosa, anche se strana, pettinatura alla “Aubrey Beardsley”. Alcuni di loro in modo naturale, altri in seguito, ma all’inizio si rifacevano all’immagine di Dylan sulla copertina di “Blonde on Blonde”, che avevamo ascoltato senza sosta e con cui ci eravamo identificati l’anno precedente. Ben presto quell’acconciatura fu associata anche a Hendrix. A Londra c’era un gran fermento intorno a lui e, in effetti, lo incontrai prima di vederlo suonare per la prima volta al Saville Theatre“.

Per Jenny, quindi, questa è certamente una canzone molto speciale, vicina al suo cuore. Quando la canzone è stata riscoperta e pubblicata nel 2001, è stata una sorpresa e un regalo per molti di noi.

Jenny ricorda: “Quando ho riascoltato ‘The Bob Dylan Blues’, dopo tutti quegli anni, sono rimasta stupita e meravigliata. Mi ha riportato indietro nel tempo, quando Syd era gioioso per tutto. Penso davvero che la gente ami questa canzone adesso. Spero che piaccia anche a Dylan. Non la dimenticherò mai più e sono molto grato a Malcolm Jones e David Gilmour per averla registrata e mantenuta al sicuro e non adulterata nel corso degli anni, perché è la quintessenza di un Barrett impeccabile“.

David Gilmour ha commentato la canzone, che deve essere stata cara anche a lui: “Bob Dylan Blues è un po’ divertente. Era un fan di Dylan, anche se c’era un po’ di gelosia. Se era un tributo, allora era una presa in giro!“.

(Un sentito ringraziamento a Jenny per il permesso di pubblicare questi ricordi personali e le sue memorie).

Fonte: https://www.sydbarrett.com/featured_songs/bob-dylan-blues/

Traduzione: Simone Signoretti / Pink Floyd Italia


Shine On!

PINK FLOYD: LA STORIA DELLA COPERTINA DI “THE PIPER AT THE GATES OF DAWN”

La copertina dell’album di debutto dei Pink Floyd, The Piper At The Gates Of Dawn, era decisamente all’avanguardia. In questo articolo di Louder Sound, Hugh Fielder parla con il fotografo delle copertine Vic Singh dei prismi, di George Harrison, dei Pink Floyd e del fatto di non essere stato pagato!


Non è solo il disco di The Piper At The Gates Of Dawn dei Pink Floyd a renderlo automaticamente un candidato per il miglior album psichedelico di tutti i tempi. Anche la copertina dell’album è una visione iconica della psichedelia. Presenta una percezione alterata di un’immagine visiva, in questo caso la band, come se la si guardasse attraverso un caleidoscopio.

Ogni membro appare tre o quattro volte, confondendosi con se stesso e con gli altri. L’effetto è disorientante, suggestivo, coinvolgente e stimolante, e riflette perfettamente i contenuti musicali al suo interno. Ma a differenza della musica, che è stata analizzata e adorata all’infinito, c’è ben poco da trovare sulla copertina. Il che è strano se si considera che c’è gente che ha sezionato ogni movimento intestinale di Syd Barrett nel tentativo di spiegare il fragile genio che ha creato la musica dell’album di debutto dei Pink Floyd nel 1967. E anche tra la pletora di libri su una delle band più vendute del pianeta non c’è praticamente nessun accenno alla copertina.

Non stanno forse perdendo il quadro generale, per così dire? Sul retro della copertina dell’album si legge: “Foto di copertina: Vic Singh“. Oltre ai membri della band, ci sono solo altri quattro crediti sull’album e Singh si trova sotto il produttore (Norman Smith) e il tecnico di registrazione (Peter Bown), ma sopra il disegnatore della copertina posteriore (Syd Barrett). Si tratta di un credito più importante di quello che la maggior parte dei fotografi si aspetterebbe di ottenere, sia allora che oggi. È certamente più evidente del credito che l’artista Peter Blake ricevette per i suoi notevoli sforzi sull’album Sgt Pepper’s Lonely Hearts Club Band dei Beatles, pubblicato lo stesso anno.

Dovrete cercare a lungo per trovare i crediti di Singh su un’altra copertina di un album. I Pink Floyd hanno utilizzato Storm Thorgerson e Hipgnosis per tutti i loro album successivi, a parte The Wall e The Final Cut (anche se il batterista Nick Mason ha illustrato la compilation Relics). Questo perché Singh non era un fotografo rock, ma un fotografo di moda. La copertina di Piper fu un’occasione unica e gloriosa, una collisione serendipica nell’atmosfera febbrile che animava la Londra degli anni Sessanta. Con un piccolo aiuto da parte di George Harrison, come vedremo.

È successo e basta“, dice Singh, ricordando sia l’epoca sia gli eventi che hanno circondato la realizzazione della copertina. “Le persone si riunivano e basta. Una cosa tira l’altra, ci si collega e si fanno cose. C’era la sensazione di poter provare qualsiasi cosa. Era un’atmosfera così creativa. Finché alla fine è diventata una cosa enorme che ha reso questo Paese all’avanguardia nella musica e nella moda, persino nelle automobili“.
Il background di Singh è il tipo di scontro culturale che fiorì in mezzo alla nuova meritocrazia che fu un’altra caratteristica del decennio. Suo padre era il Raja di Kalakankar, una provincia dell’India settentrionale lungo il Gange. Sua madre era figlia di un fotografo mondano austriaco. All’età di sei anni fu mandato in collegio in Inghilterra e, dopo che la madre si trasferì a Londra, ricevette un’educazione scolastica pubblica presso il St Christopher’s College di Letchworth, nell’Hertfordshire, in un certo senso progressista.
Il mio background familiare ha fatto sì che il lavoro non fosse all’ordine del giorno, perché possedevamo già tutto“, dice Singh con un sorriso. Ma dopo la sua educazione occidentale, un ritorno all’ottuso privilegio del Raj era altrettanto impensabile. Così ha frequentato il St Martin’s College Of Art di Londra, dove si è interessato alla fotografia. Trovò lavoro, iniziando dal basso, come assistente junior al Mayflower Studio di Londra, spazzando il pavimento e preparando il tè, prima di passare allo Studio Five, dove si trovò a lavorare con David Bailey e la sua carriera di fotografo di moda decollò, proprio mentre la moda britannica stava decollando. Nel giro di un paio d’anni ha aperto il suo studio e si è goduto la vita nel cuore degli anni Sessanta. “Facevo parte di un gruppo influente. Avevo un appartamento in Kings Road e la mia ragazza era una modella. Tornavo a casa dallo studio e c’erano 30 o 40 persone: attori, musicisti, modelli, stilisti, redattori di moda, truffatori, commercianti. Era un posto popolare in cui vivere.” Con la fotografia di moda che consumava il suo tempo, Singh ammette di non essersi interessato molto alla scena musicale, fino a quando un giorno la sua amica e modella Patti Boyd si presentò con George Harrison al seguito. “C’era questa strana cosa di incontrare qualcuno che era molto famoso e poi andare al pub a bere una birra con lui ed essere molto normali“, ricorda. “Io e George siamo diventati amici e andavo a frequentare la sua casa in campagna vicino a Henley. Ci sedevamo per ore a discutere di misticismo, perché ci interessava entrambi“.


Ma a parte i concerti dei Beatles “dove dopo dovevamo scappare per salvarci“, Singh non frequentava la scena musicale londinese, né i club alla moda come il Marquee, né i locali notturni alla moda come lo Scotch Of St James, né la fiorente scena underground dell’UFO, dove i Pink Floyd si stavano guadagnando la reputazione di house band non ufficiale. Così, quando all’inizio dell’estate del 1967 ricevette una telefonata dal management della band che gli chiedeva se fosse interessato a fotografare il gruppo nel suo studio, la cosa arrivò all’improvviso.
Avevo incontrato la band a un evento a Piccadilly qualche settimana prima – allora li chiamavamo happening“, ricorda Singh. “Quindi li conoscevo, ma non li avevo mai visti suonare. Ho chiesto se avessero in mente qualcosa di particolare per la sessione, ma mi hanno risposto di no, che avrebbero lasciato a me la scelta“. Il suo partner Andrew King, tuttavia, ricorda vagamente che Singh era stato raccomandato loro. “Credo che sia stato un altro brillante suggerimento di Hoppy“, dice. John ‘Hoppy’ Hopkins era un fotoreporter radicale che ha avuto un ruolo di primo piano nella scena underground londinese, co-fondando l’UFO Club e il giornale hippy International Times. “Non volevamo usare i normali collaboratori della EMI e volevamo affermare la nostra indipendenza“, dice King. “Era un grande momento per la fotografia inglese e il tipo di immagini che venivano pubblicate su Vogue e sulle altre riviste di moda dell’epoca erano eccellenti“, ricorda King. “La fotografia di moda si muoveva a ritmo serrato, ma non quella di spettacolo. Ho la sensazione che Hoppy conoscesse Vic Singh e abbiamo pensato: ‘Bene, usiamo qualcuno di eccitante e giovane perché potrebbe essere divertente, insolito e anche interessante’“.

Il management dei Pink Floyd dell’epoca ricorda ben poco degli eventi che circondarono la copertina di The Piper At The Gates Of Dawn. Ma dopotutto era il 1967 e il co-manager Peter Jenner era impegnato in studio con i Pink Floyd, gridando i nomi dei pianeti in un megafono all’inizio di Astronomy Domine.


Nel frattempo, Singh stava cercando qualcosa di divertente, insolito e interessante per la sessione fotografica. “Mi avevano mandato una copia in anteprima dell’album e ne ero rimasto stupito“, ricorda. “All’inizio sembrava molto alieno, ma poi ho cominciato a capire il tipo di cose a cui miravano e volevo realizzare una foto che lo rispecchiasse. Avevo una lente a prisma che George Harrison mi aveva dato un giorno, quando ero a casa sua. Stavamo guardando il suo home cinema e ci stavamo divertendo. Mi disse: ‘Prendila, perché non so cosa farne e tu potresti trovarne un uso’“. L’obiettivo a prisma divide l’immagine, ma bisogna impostare l’inquadratura con attenzione, perché se si punta la telecamera e si scatta una foto, il risultato è strano. Tutto sembra molliccio perché l’obiettivo ammorbidisce l’immagine. “Ho pensato che sarebbe stato perfetto. Così ho allestito lo studio e l’ho provato e sembrava funzionare. Ma era ancora piuttosto morbida, così ho chiesto al gruppo di portare con sé alcuni abiti colorati, perché pensavo che avrebbero creato un contrasto luminoso, soprattutto se l’illuminazione fosse stata adeguata. Così sono arrivati il giorno con tutti questi vestiti e dopo aver preso un caffè si sono cambiati. Poi ho dovuto posizionarli su questo sfondo bianco per ottenere l’immagine che cercavo. Il posizionamento era cruciale perché l’immagine si sarebbe spezzata e tutti dovevano essere esattamente al posto giusto se l’immagine finale doveva funzionare“. Al giorno d’oggi uno scatto del genere verrebbe affrontato in modo molto diverso. Anzi, probabilmente non si cercherebbe nemmeno di fotografare la band insieme. Sarebbe più facile fare scatti individuali e poi sovrapporli. Ma all’epoca questa non era un’opzione. “Una volta che ho mostrato loro le Polaroid e hanno potuto vedere quanto fossero importanti il posizionamento e l’illuminazione, hanno iniziato ad appassionarsi, soprattutto Syd“, racconta Singh. “Hanno capito che se tutto fosse stato fatto bene sarebbe stato davvero bello. E avevamo la musica del Piper che usciva da questi grandi altoparlanti che avevo in studio. La si poteva sentire fino in fondo alla strada. Poi si trattava solo di fare le riprese giuste. Non c’erano molti modi per fare le riprese a causa delle sovrapposizioni e di tutto il resto, e se uno di loro si muoveva cambiava l’intero aspetto della ripresa. Alla fine ho fatto circa quattro o cinque bobine, da 40 a 50 scatti, in modo che avessero molto da scegliere e si sperava che ce ne fosse una in cui fossero tutti belli“.

Per la cronaca, non c’erano filtri o altri effetti, a parte il prisma. “Si passava direttamente dalla Hasselblad all’Ektochrome“, afferma Singh. E non c’erano nemmeno stylist o truccatori. “Certamente no. Anche le modelle si truccavano da sole, allora“. La sessione è durata tutto il giorno e dopo che Singh ha inviato le foto alla direzione, qualche giorno dopo ha telefonato per sapere se tutto era andato bene. “Sì, sono fantastiche, mi dissero. Mi dissero che le avrebbero usate e che Syd avrebbe disegnato la quarta di copertina, così dissi ‘bene’ e tornai a fare le mie cose, lasciando a loro la scelta dello scatto. Qualche tempo dopo ho visto la copertina e mi è sembrata a posto. Non ricordo se l’ho vista in un negozio o se qualcuno me l’ha mostrata. Non solo tutti sembrano a posto nell’inquadratura, ma la scritta Pink Floyd si inserisce perfettamente al centro. Alcune delle altre foto erano altrettanto belle, ma non c’era lo spazio per inserire la scritta. Ecco perché l’hanno scelta“. Non ebbe più notizie dei Pink Floyd e non andò a nessun concerto. E non fu nemmeno pagato. “Quindi il copyright è mio. Possiedo quello scatto, ma non ne faccio un dramma. Perché, per quanto mi riguarda, all’epoca erano al verde. E subito dopo l’uscita dell’album hanno iniziato ad avere problemi con Syd. Poi lui se ne andò, il management cambiò e a quanto pare tutte le immagini furono inviate a Storm Thorgerson della Hipgnosis, che iniziò a occuparsi di tutte le loro grafiche. Ha fatto un ottimo lavoro per loro, ma ormai ero andato avanti“.

In effetti, gli anni ’60 si sono conclusi bruscamente per Singh. “Mi sono dedicato al cinema e sono rimasto al verde. Allora mi sono arrabbiato con tutto e sono andato a vivere in campagna. Sono diventato padre e ho cresciuto un figlio. Ho lavorato per pagare l’affitto, niente di più, vivendo giorno per giorno con la natura“.

Ora è tornato a Londra, vive ancora a pochi passi da Kings Road, lavora nella fotografia digitale e nel cinema, è più interessato alla moda di strada e dei club che all’industria della moda delle grandi firme: “Se non abbracci il tempo e non abbracci ciò che sta accadendo oggi, allora artisticamente sei morto“. Ma sostiene che “il lavoro che sto facendo ora si basa sulla psichedelia. Perché quell’atteggiamento è rilevante oggi come lo era negli anni ’60“.

Ed è ancora orgoglioso della copertina di The Piper At The Gates Of Dawn. “Quel disco e la copertina sono arrivati a rappresentare le radici dei Pink Floyd e l’immagine comunica ancora quell’epoca alla gente“.

Fonte: www.loudersound.com


Outtakes dalla sessione fotografica:


Shine On!